Le procedure che si possono utilizzare sono diverse

La paura delle mamme? Quella di provare più dolore

Induzione. Una parola che spaventa tante mamme in prossimità del termine della gravidanza. Sì perché emerge che la stimolazione del travaglio sia sempre più frequente e i racconti non sempre sono incoraggianti. Ma dobbiamo ricordare sempre che ogni parto è a sé stante, esattamente come la percezione del dolore è diversa da donna a donna. Cerchiamo però di conoscere meglio l’induzione.

Cos’è il parto indotto

Per induzione si intende un insieme di manovre o la somministrazione di sostanze che hanno l’obiettivo di far partire il travaglio. È pur sempre una pratica medica e, in quanto tale, ha dei rischi che vanno considerati. Inoltre, non viene fatta “a tappeto” a tutte le donne (magari perché “stanche” della gravidanza e desiderose di partorire), ma solo a quelle che effettivamente nel hanno bisogno. E vediamo quali sono i casi.

Parto indotto: quando è necessario

Le indicazioni per procedere con un’induzione sono ben precise e codificate. Ad esempio, la Società italiana di ginecologia ostetrica (Sigo), dell’Associazione ostetrici ginecologi ospedalieri italiani (Aogoi) e dell’Associazione ginecologi universitari italiani (Agui) hanno stilato delle vere e proprie raccomandazioni per il parto indotto.

Per queste Società scientifiche, i motivi per indurre il parto sono tre:

  1. gravidanza che va molto oltre il termine.
  2. Rottura delle membrane.
  3. Morte fetale intrauterina.

Il primo caso è quello più frequente. I protocolli possono variare da ospedale a ospedale, ma in linea di massima possiamo dire che, se il travaglio non parte spontaneamente, l’induzione è praticata tra le 41 e le 42 settimane di gestazione. Nel caso della rottura delle membrane, si induce il parto se dopo 12 ore il travaglio non è partito. Se invece c’è una morte fetale intrauterina bisogna intervenire per evitare grossi rischi alla mamma.

Altri casi di induzione

Oltre a quelli che abbiamo appena elencato, ci sono altre circostanze che potrebbero far decidere ai medici di indurre il parto:

  • ipertensione arteriosa (pressione alta).
  • Gestosi.
  • Colestasi gravidica.
  • Scarsa crescita del bambino.
  • Quantità eccessiva o scarsa di liquido amniotico.
  • Diabete.
  • Macrosomia (feto molto grosso).

Parto indotto: quando non si può fare

Le controindicazioni all’induzione coincidono con quelle per cui è sconsigliato il parto naturale ed è invece indicato il cesareo. Tra queste, la posizione podalica del feto o la placenta previa.

Le tecniche di parto indotto

I ginecologi hanno diverse strategie per far partire il travaglio.

Stimolazione con prostaglandine. È uno dei metodi più diffusi di parto indotto. Una specie di piccola striscia di tessuto viene inserita in vagina. È imbevuta di prostaglandine, ormoni che naturalmente modificano il collo dell’utero e favoriscono le contrazioni. La fettuccia può essere messa più volte, se il travaglio non parte subito. Esiste anche la somministrazione in gel, ovuli o candelette.

Ossitocina. È il sistema più utilizzato, spesso è la seconda scelta dopo aver tentato con le prostaglandine. Difficilmente cioè si viene stimolate subito con ossitocina, a meno che non si vogliano ad esempio accelerare contrazioni già iniziate, ma che si protraggono per molto tempo. L’ossitocina viene somministrata con flebo in modo continuo, a intervalli e con dosi differenti. L’effetto è più veloce rispetto alle prostaglandine, però le contrazioni sono più ravvicinate e dolorose.

Catetere di Foley. Comunemente viene chiamato il “palloncino”. Un piccolo tubicino di gomma flessibile viene inserito in vagina. Alla sua estremità c’è una specie di palloncino che viene gonfiato con una soluzione salina. In questo modo, il palloncino esercita una pressione sulle pareti della cervice, che così si dilata.

Altri metodi per stimolare il parto

Esistono delle procedure differenti che – almeno in linea teorica – possono accelerare l’avvio del travaglio. Una di queste è lo scollamento delle membrane. Questa tecnica, considerata più “naturale” rispetto a quelle già elencate, dovrebbe stimolare il rilascio di prostaglandine da parte dell’organismo e, di conseguenza, far partire le contrazioni. La sua efficacia però non è sicura. Per alcune donne è molto dolorosa, per altre solo fastidiosa.

Esiste poi la rottura manuale delle membrane, che in termine tecnico si chiama amniorexi. Spesso è associata alla somministrazione di ossitocina, in modo da accelerare un po’ il travaglio.

Parto indotto ed epidurale

Rassicuriamoci: l’induzione non esclude la possibilità della partoanalgesia, quindi dell’epidurale. In effetti, potrebbe essere molto utile farla perché il dolore provocato dalla stimolazione solitamente è più intenso di quello di un travaglia che si avvia spontaneamente. L’epidurale dunque può dare una grossa mano.

Parto indotto e precedente cesareo

Qualcuno pensa che se si vuole fare un Vbac (ovvero un parto naturale dopo il cesareo) l’induzione non è consentita. Non è assolutamente vero. Ciò che cambia è il modo in cui il parto viene indotto. Nel caso di un Vbac, l’induzione sarà più “soft” per evitare il rischio di una rottura dell’utero. Ad esempio, invece di iniziare subito con l’ossitocina si impiegheranno metodi diversi, ad esempio il palloncino.

I rischi del parto indotto

Prima di tutto c’è da dire che l’induzione non garantisce il successo. Può succedere infatti che il travaglio non si avvii in ogni caso, qualunque sia la tecnica tentata. È un’eventualità che può presentarsi. In linea generale, nella maggior parte dei casi (75%) la stimolazione fa effetto dopo 12 ore.

Come tutte le procedure mediche, anche questa non è esente da rischi. Che comunque sono valutati dal ginecologo e condivisi con la futura mamma. L’utero ad esempio può restare contratto e quindi non garantire una buona ossigenazione del feto. Tra i rischi c’è anche quello di un cesareo.